24.10.2008

DIRITTI IN PILLOLE - Nuove norme sui licenziamenti

COSA BOLLE IN PENTOLA SUI “LICENZIAMENTI INDIVIDUALI”
 

Nuove norme in arrivo in tema di licenziamenti individuali con cancellazioni di diritti e limitazione del potere del giudice per dirimere le controversie di lavoro.


Nel Disegno di legge 1441-quater-A predisposto dal Governo su delega ricevuta in materia di:


· Lavori usuranti


· Riorganizzazione di enti


· Misure contro il lavoro sommerso


· Norme in materia di lavoro pubblico


· Norme in materia di controversie di lavoro,


quando viene affrontato il tema delle controversie di lavoro, vengono dettate una serie di norme in materia processuale del lavoro che, se approvate, come disposto dalle Commissioni parlamentari competenti, faranno arretrare moltissimo la tutela dei diritti conquistati nel tempo dai lavoratori al prezzo di dure lotte e notevoli sacrifici, dalla liberazione ai giorni nostri.


In che modo?


a) Sopprimendo alcune parti delle norme esistenti in tema di licenziamenti individuali e riscrivendole con delle aggiunte peggiorative rispetto agli attuali diritti;


b) svuotando di significato le previsioni di legge, rendendo il Giudice del lavoro una sorta di notaio;


c) orientando il contenzioso verso l’Arbitrato e le varie Commissioni a vario titolo costituite, giustificando tale scelta come conseguenza della lungaggine del processo del lavoro, rinnovando in tale modo il malvezzo costume tipico di chi non vuole assumersi la responsabilità che, di fronte ad un problema da risolvere, anzichè intervenire per rimuovere le cause che lo determinano, interviene su due fronti: da una parte modificando le norme in modo tale che quello che era un problema con le norme esistenti, diventa un falso problema con le nuove norme e dall'altra parte creando norme che facilitino percorsi conciliativi e transattivi anche su diritti indisponibili.






Ad esempio, l’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (che contiene le norme sui licenziamenti individuali), prevede:


1. Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione, con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso;


2. Il termine di cui al comma precedente decorre dalla comunicazione del licenziamento ovvero dalla comunicazione dei motivi ove questa non sia contestuale a quella del licenziamento;


3. A conoscere delle controversie derivanti dall’applicazione della presente legge è competente il pretore.






Questo, è previsto dalla legge esistente. Cosa prevede il disegno di legge del governo su tale punto? Prevede di sostituire il 1° comma dell’art. 6 sopra citato, con il seguente:


1. Il licenziamento da parte del datore di lavoro deve essere impugnato a pena di decadenza entro 120 giorni dalla ricezione della sua comunicazione, ovvero dalla comunicazione dei motivi, ove non contestuale, con ricorso depositato nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro.


Tale modifica, qualora fosse approvata produrrebbe sostanziali peggioramenti per i lavoratori. Vediamo alcune delle controindicazioni:


a) Il lavoratore per impugnare il licenziamento, deve necessariamente rivolgersi all’avvocato che deve presentare il ricorso in tribunale entro 120 giorni e il disegno di legge in discussione gli impedisce di impugnare, con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, idoneo a rendere nota la sua volontà anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. Quindi emerge la volontà del legislatore di emarginare il sindacato per un intervento diretto ad impugnare tale licenziamento e di voler affidare direttamente all’avvocato il compito dell’impugnazione con ricorso depositato nella cancelleria del tribunale in funzione del giudice del lavoro.


b) Molti lavoratori che prima d’impugnare il licenziamento aspettano il pagamento delle competenze di fine rapporto, non avranno più la possibilità d’impugnare il licenziamento all’ultimo momento, in quanto, contrariamente a quanto prevede la legge attuale, il disegno di legge in questione, prevede che l’impugnazione va fatta con ricorso depositato in tribunale e la preparazione del ricorso da parte dell’avvocato richiede più tempo per la preparazione, rispetto ad una comunicazione con raccomandata di un qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore come è previsto nella legge esistente.


c) Viene allungato il tempo di decadenza (da 60 a 120 giorni) per l’impugnazione del licenziamento. Ma, non si era partiti dalla constatazione delle lungaggini del processo del lavoro e dall’esigenza di accorciarne i tempi?


d) Diversi lavoratori, nell’impossibilità di sostenere le spese legali rinunceranno all’impugnazione del licenziamento.






Altra novità del disegno di legge in esame è la previsione normativa che estende l’applicazione del termine di decadenza dal diritto di impugnare il licenziamento (anche se lo stesso è nullo perché discriminatorio, o inefficace, per mancanza di forma scritta), al contratto a termine, ai contratti di collaborazione e ai trasferimenti. Per tutti questi casi, decorsi 4 mesi dal provvedimento datoriale senza che venga depositato il ricorso giudiziario, il diritto si perde! E, sicuramente, il diritto si perderà per tutti quei lavoratori a termine e collaboratori a progetto che faranno per lo più decorrere i quattro mesi sperando in un rinnovo del loro contratto scaduto.






Riprendendo alcune considerazioni svolte sul quotidiano “IL MANIFESTO” del 16.10.2008 da Lorenzo Fassina della consulta giuridica della Cgil, si può affermare che “con il Disegno di legge in esame si tende a depotenziare il ruolo dei giudici nell’applicazione delle tutele previste dalle norme di legge. Da una parte, rimangono in piedi i presìdi dettati dalla disciplina dei licenziamenti: il concetto di giusta causa, di giustificato motivo, l’applicabilità della reintegra nel posto di lavoro nelle aziende al di sopra di 15 dipendenti, ecc… Tuttavia, dall’altra, si svuotano di significato le previsioni di legge, rendendo il giudice una sorta di notaio. Infatti il disegno di legge, all’articolo 65 prevede che il giudice, di fronte a concetti generali, quali la giusta causa o il giustificato motivo di licenziamento e tutte le altre clausole generali nel diritto del lavoro, non potrà entrare nel merito delle scelte operate dal datore, ma dovrà fermarsi alla sola verifica formale del provvedimento datoriale. Così, alla base di un licenziamento per motivi economici, sarà sufficiente dire che l’eliminazione di una postazione di lavoro, con lo spostamento del relativo carico sulle spalle dei lavoratori residui in pianta organica, rientra nelle ragioni inerenti all’attività produttiva, senza che rilevi più il parametro costituzionale del diritto al lavoro. Insomma, conterà sempre più la ragione padronale senza il doveroso bilanciamento con il diritto del lavoratore. Ma c’è di peggio: lo stesso articolo prevede che il giudice debba fare riferimento alle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, ovvero (questa è la vera gemma, ndr) nei contratti individuali di lavoro certificati. Questo significa che il giudice non dovrà più interpretare ed applicare la legge alla luce della Costituzione, bensì le norme dei contratti collettivi e dei contratti individuali di lavoro certificati. Ad esempio un contratto collettivo (cosa meno probabile) o un contratto individuale certificato (circostanza molto più frequente) potrebbero prevedere che per un solo giorno di assenza si è di fronte ad una giusta causa di licenziamento e il giudice non potrebbe discostarsi da questa previsione, ritenendo legittimo il licenziamento”.






È questa, con tutta evidenza, un’innovazione dirompente: l’articolo 18 dello Statuto sarà difficilmente applicabile perché i licenziamenti saranno per lo più dichiarati legittimi. Si intravede così, la fine del diritto del lavoro e l’inizio di un sistema di garanzie a geometria variabile. L’elenco non finisce qui: cosa dire dell’articolo 66 che abilita, fin dal momento dell’assunzione, l’affidamento di ogni eventuale futura controversia all’Arbitrato (anche secondo equità, ossia senza applicare la legge) nel caso in cui il contratto sia stato certificato dalle apposite commissioni?


È evidente che la certificazione non ridurrà i rischi di compressione della volontà del lavoratore il quale, al momento dell’assunzione, sarà costretto a rinunciare una volta per tutte al giudice del lavoro. Questa pesante riforma prevista nel disegno di legge è oggetto di discussione e di approfondimento dalla Consulta giuridica della Cgil affinché i lavoratori, attraverso un’informazione corretta, vengano resi consapevoli dei gravi pericoli che incombono sulla tutela del diritto al lavoro, contro i licenziamenti individuali, di fronte alle norme del disegno di legge 1441- quater-A che il Parlamento si appresta ad approvare prossimamente.

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Antonio Fragnelli

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