DIRITTI IN PILLOLE - Nuove norme sui licenziamenti
Nuove norme in arrivo in tema di
licenziamenti individuali con cancellazioni di diritti e limitazione
del potere del giudice per dirimere le controversie di lavoro.
Nel Disegno di legge 1441-quater-A
predisposto dal Governo su delega ricevuta in materia di:
· Lavori usuranti
· Riorganizzazione di enti
· Misure contro il lavoro
sommerso
· Norme in materia di lavoro
pubblico
· Norme in materia di
controversie di lavoro,
quando viene affrontato il tema delle
controversie di lavoro, vengono dettate una serie di norme in materia
processuale del lavoro che, se approvate, come disposto dalle
Commissioni parlamentari competenti, faranno arretrare moltissimo la
tutela dei diritti conquistati nel tempo dai lavoratori al prezzo di
dure lotte e notevoli sacrifici, dalla liberazione ai giorni nostri.
In che modo?
a) Sopprimendo alcune parti delle norme
esistenti in tema di licenziamenti individuali e riscrivendole con
delle aggiunte peggiorative rispetto agli attuali diritti;
b) svuotando di significato le
previsioni di legge, rendendo il Giudice del lavoro una sorta di
notaio;
c) orientando il contenzioso verso
l’Arbitrato e le varie Commissioni a vario titolo costituite,
giustificando tale scelta come conseguenza della lungaggine del
processo del lavoro, rinnovando in tale modo il malvezzo costume
tipico di chi non vuole assumersi la responsabilità che, di
fronte ad un problema da risolvere, anzichè intervenire per
rimuovere le cause che lo determinano, interviene su due fronti: da
una parte modificando le norme in modo tale che quello che era un
problema con le norme esistenti, diventa un falso problema con le
nuove norme e dall'altra parte creando norme che facilitino percorsi
conciliativi e transattivi anche su diritti indisponibili.
Ad esempio, l’articolo 6 della legge
15 luglio 1966, n. 604 (che contiene le norme sui licenziamenti
individuali), prevede:
1. Il licenziamento deve essere
impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione
della comunicazione, con qualsiasi atto scritto, anche
stragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del
lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione
sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso;
2. Il termine di cui al comma
precedente decorre dalla comunicazione del licenziamento ovvero dalla
comunicazione dei motivi ove questa non sia contestuale a quella del
licenziamento;
3. A conoscere delle controversie
derivanti dall’applicazione della presente legge è
competente il pretore.
Questo, è previsto dalla legge
esistente. Cosa prevede il disegno di legge del governo su tale
punto? Prevede di sostituire il 1° comma dell’art. 6 sopra
citato, con il seguente:
1. Il licenziamento da parte del datore
di lavoro deve essere impugnato a pena di decadenza entro 120 giorni
dalla ricezione della sua comunicazione, ovvero dalla comunicazione
dei motivi, ove non contestuale, con ricorso depositato nella
cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro.
Tale modifica, qualora fosse approvata
produrrebbe sostanziali peggioramenti per i lavoratori. Vediamo
alcune delle controindicazioni:
a) Il lavoratore per impugnare il
licenziamento, deve necessariamente rivolgersi all’avvocato che
deve presentare il ricorso in tribunale entro 120 giorni e il disegno
di legge in discussione gli impedisce di impugnare, con qualsiasi
atto scritto, anche stragiudiziale, idoneo a rendere nota la sua
volontà anche attraverso l’intervento dell’organizzazione
sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. Quindi emerge
la volontà del legislatore di emarginare il sindacato per un
intervento diretto ad impugnare tale licenziamento e di voler
affidare direttamente all’avvocato il compito dell’impugnazione
con ricorso depositato nella cancelleria del tribunale in funzione
del giudice del lavoro.
b) Molti lavoratori che prima
d’impugnare il licenziamento aspettano il pagamento delle
competenze di fine rapporto, non avranno più la possibilità
d’impugnare il licenziamento all’ultimo momento, in quanto,
contrariamente a quanto prevede la legge attuale, il disegno di legge
in questione, prevede che l’impugnazione va fatta con ricorso
depositato in tribunale e la preparazione del ricorso da parte
dell’avvocato richiede più tempo per la preparazione,
rispetto ad una comunicazione con raccomandata di un qualsiasi atto
scritto, anche stragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà
del lavoratore come è previsto nella legge esistente.
c) Viene allungato il tempo di
decadenza (da 60 a 120 giorni) per l’impugnazione del
licenziamento. Ma, non si era partiti dalla constatazione delle
lungaggini del processo del lavoro e dall’esigenza di accorciarne i
tempi?
d) Diversi lavoratori,
nell’impossibilità di sostenere le spese legali rinunceranno
all’impugnazione del licenziamento.
Altra novità del disegno di
legge in esame è la previsione normativa che estende
l’applicazione del termine di decadenza dal diritto di impugnare il
licenziamento (anche se lo stesso è nullo perché
discriminatorio, o inefficace, per mancanza di forma scritta), al
contratto a termine, ai contratti di collaborazione e ai
trasferimenti. Per tutti questi casi, decorsi 4 mesi dal
provvedimento datoriale senza che venga depositato il ricorso
giudiziario, il diritto si perde! E, sicuramente, il diritto si
perderà per tutti quei lavoratori a termine e collaboratori a
progetto che faranno per lo più decorrere i quattro mesi
sperando in un rinnovo del loro contratto scaduto.
Riprendendo alcune considerazioni
svolte sul quotidiano “IL MANIFESTO” del 16.10.2008 da Lorenzo
Fassina della consulta giuridica della Cgil, si può affermare
che “con il Disegno di legge in esame si tende a depotenziare il
ruolo dei giudici nell’applicazione delle tutele previste dalle
norme di legge. Da una parte, rimangono in piedi i presìdi
dettati dalla disciplina dei licenziamenti: il concetto di giusta
causa, di giustificato motivo, l’applicabilità della
reintegra nel posto di lavoro nelle aziende al di sopra di 15
dipendenti, ecc… Tuttavia, dall’altra, si svuotano di significato
le previsioni di legge, rendendo il giudice una sorta di notaio.
Infatti il disegno di legge, all’articolo 65 prevede che il
giudice, di fronte a concetti generali, quali la giusta causa o il
giustificato motivo di licenziamento e tutte le altre clausole
generali nel diritto del lavoro, non potrà entrare nel merito
delle scelte operate dal datore, ma dovrà fermarsi alla sola
verifica formale del provvedimento datoriale. Così, alla base
di un licenziamento per motivi economici, sarà sufficiente
dire che l’eliminazione di una postazione di lavoro, con lo
spostamento del relativo carico sulle spalle dei lavoratori residui
in pianta organica, rientra nelle ragioni inerenti all’attività
produttiva, senza che rilevi più il parametro costituzionale
del diritto al lavoro. Insomma, conterà sempre più la
ragione padronale senza il doveroso bilanciamento con il diritto del
lavoratore. Ma c’è di peggio: lo stesso articolo prevede che
il giudice debba fare riferimento alle tipizzazioni di giusta causa e
di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro
stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi,
ovvero (questa è la vera gemma, ndr) nei contratti individuali
di lavoro certificati. Questo significa che il giudice non dovrà
più interpretare ed applicare la legge alla luce della
Costituzione, bensì le norme dei contratti collettivi e dei
contratti individuali di lavoro certificati. Ad esempio un contratto
collettivo (cosa meno probabile) o un contratto individuale
certificato (circostanza molto più frequente) potrebbero
prevedere che per un solo giorno di assenza si è di fronte ad
una giusta causa di licenziamento e il giudice non potrebbe
discostarsi da questa previsione, ritenendo legittimo il
licenziamento”.
È questa, con tutta evidenza,
un’innovazione dirompente: l’articolo 18 dello Statuto sarà
difficilmente applicabile perché i licenziamenti saranno per
lo più dichiarati legittimi. Si intravede così, la fine
del diritto del lavoro e l’inizio di un sistema di garanzie a
geometria variabile. L’elenco non finisce qui: cosa dire
dell’articolo 66 che abilita, fin dal momento dell’assunzione,
l’affidamento di ogni eventuale futura controversia all’Arbitrato
(anche secondo equità, ossia senza applicare la legge) nel
caso in cui il contratto sia stato certificato dalle apposite
commissioni?
È evidente che la certificazione
non ridurrà i rischi di compressione della volontà del
lavoratore il quale, al momento dell’assunzione, sarà
costretto a rinunciare una volta per tutte al giudice del lavoro.
Questa pesante riforma prevista nel disegno di legge è oggetto
di discussione e di approfondimento dalla Consulta giuridica della
Cgil affinché i lavoratori, attraverso un’informazione
corretta, vengano resi consapevoli dei gravi pericoli che incombono
sulla tutela del diritto al lavoro, contro i licenziamenti
individuali, di fronte alle norme del disegno di legge 1441- quater-A
che il Parlamento si appresta ad approvare prossimamente.
Antonio Fragnelli
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