10.03.2009
AIRAUDO: ”Tre mosse per uscire dalla crisi”
«Gestire le crisi in fondo è
il mestiere del sindacalista. Ma in molti anni non ho mai visto così
tanta paura in giro. Paura di perdere il lavoro. Perché tutti
hanno capito che i posti che si perdono non si recuperano più».
Giorgio Airaudo, segretario Fiom, passa le sue giornate tra gli
uffici del sindacato e le fabbriche presidiate, tra gli incontri all'
Unione industriale per difendere quel che si può ancora
difendere e assemblee dove la rassegnazione e lo sconforto hanno
preso il posto dell' ira. SEGuE PIEMONTE ECONOMIA AIRAUDO, a che
punto è la notte? «Nessuno lo sa. Ci dicono che la crisi
durerà di più, che il 2010 sarà più o
meno uguale all' anno che stiamo vivendo. Ma nessuno sa veramente
quando si rimetterà in moto la macchina dell' economia. Anzi,
qui sono proprio saltati i fondamentali. Le piccole imprese sono
ormai al limite della resistenza, le grandi soffrono e tutti studiano
piani di ridimensionamento». Cresce anche il numero di quanti
scelgono di andarsene. In Piemonte tre casi simbolo: Motorola,
Indesit e presto, forse, Italcementi. Ma se anche i grandi marchi
alzano bandiera bianca non c' è davvero il rischio che sia
finita? «È per questo che servirebbero vere politiche
industriali. Inutile adesso parlare di grandi riforme che non siamo
riusciti a fare neanche quando l' economia tirava o ipotizzare
assegni per i disoccupati. Qui bisogna concentrarsi su tre, quattro
punti al massimo, ma con determinazione, senza perdere tempo perché
il tanto bistrattato welfare ci sta aiutando a resistere alla crisi,
ma non potrà durare a lungo, perché gli strumenti non
sono adeguati al momento». Quali mosse ha in mente?
«Innanzitutto va estesa la cassa integrazione ai precari,
davvero le prime vittime della recessione. Poi bisogna rimodulare la
cassa ordinaria. Nato come ammortizzatore per fronteggiare i
temporanei cali di mercato viene oggi usata in modo inappropriato.
Per esempio anziché calcolare il periodo sulle settimane,
bisognerebbe farlo sulle giornate. Un' idea sulla quale era d'
accordo anche il presidente degli industriali di Torino Carbonato.
Poi bisogna tornare a garantire per chiè in cassa l' 80 per
cento dello stipendio intero, cosa che adesso non accade, complice un
tetto che molti politici ignorano, ma c' è e ogni mese gli
operai scoprono in busta dovendo fare i conti con paghe ben inferiori
a quanto promesso: 500/600 euro invece di 800». Altre misure?
«Bisogna anche fissare con precisione per quali settori il
periodo di cassa è raddoppiabile perché in questo
momento il miglior antidotoè allungarei tempi, prolungare la
vita degli ammortizzatori sociali aspettando che la tempesta passi.
Perché quel che si perde oggi non si recupera più».
Pensa alla Indesit? «Senza dubbio, anche se sono convinto che
non dobbiamo mollare su questa azienda. Bisogna insistere perché
restino aperti tutti e due gli stabilimenti, quello di None e quello
in Polonia. Soprattutto bisogna evitare che si arrivi a un bis di
quello che si è visto in Inghilterra: operai italiani contro
operai polacchi. Così non si andrebbe da nessuna parte. Noi
invece dobbiamo rilanciare, concedendo sicuramente qualcosa all'
azienda, ma in cambio di un futuro per None. Perché se chiude
None, tutto il territorio perde una certa capacità tecnologica
che va oltre la Indesit stessa». Deluso dalla famiglia Merloni?
«Più che deluso sorpreso. In questo caso non ha certo
dimostrato quell' attenzione alla responsabilità d' impresa
che in passato ne era stato un marchio di distinzione. E per questo
che vedo nero non solo sul futuro di None, ma anche degli altri
stabilimenti italiani: temo che dietro la volontà di chiudere
None ci sia una crisi più profonda. Ma per scoprirlo serve che
tutti facciano la loro parte, indipendentemente dal colore politico:
in queste settimane ci sono state parole di attenzione al caso
Indesit sia da politici del centrosinistra che del centrodestra. È
proprio quello che serve: fare una lobby in difesa del territorio».
E gli enti locali cosa possono fare? «Possono pungolare il
governo, ma è chiaro che il pallino ce l' ha in mano l'
esecutivo. E alcune mosse del governo Berlusconi, prima fra tutte
quella di dividere i sindacati, non mi pare muovano nella giusta
direzione. Ma come? Obama spinge perché i sindacati americani
ritrovino l' unità e in Italia invece si lavora per separare i
rappresentanti dei lavoratori». Qual è l' obiettivo?
«Non vorrei che qualcuno pensasse già al dopo. A quando
questa crisi sarà passata e tornerà la legittima
richiesta di aumenti salariali. I divieti di blocchi stradali per
esempio sembrano pensati proprio per impedire che accada quel che è
successo con l' ultimo contratto dei metalmeccanici, quando di fronte
a proposte ridicole, le tute blu non hanno avuto altre alternative
che occupare le strade». Ma non si dice che in questa crisi
imprenditori e operai sono sulla stessa barca? «Non diciamo
ipocrisie. Quel che conta è che le imprese continuino ad
assumersi il rischio di impresa.E devo dire che in giro c' è,
soprattutto tra gli industriali medi, un certo numero di imprenditori
che pur con l' acqua alla gola è pronto a rischiare, a
resistere nonostante numeri sconfortanti. Ecco, il sindacato deve
aiutare questi imprenditori». E la Fiat va aiutata? «Mi
fa sorridere chi sta ancora a discutere se dare soldi agli Agnellio
no. Non è questa la questione. L' auto resta una delle poche
grandi produzioni in cui l' Italia è ancora presente e credo
che questa peculiarità vada salvaguardata. Dunque ha ragione
Marchionne quando dice di avere le mani legate guardando a come
Francia e Germania aiutano la loro industria automobilistica. Ecco
perché bisognerebbe convincere il governo a mettere in piedi
una vera politica industriale per il settore. Poi però
incalzerei la Fiat». Su cosa? «Vorrei chiedere a
Marchionne, che sfugge da tempo al confronto, cosa vuole in cambio
della garanzia di continuare a produrre qui, in Italia.E agli Agnelli
quanto sono disposti a salvaguardare l' italianità dell'
azienda perché dall' ultima intervista ad Andrea Agnelli esce
abbastanza chiaro che per la famiglia la Fiat è in vendita.
Poi si può disquisire sulle parole, ma insomma mi preoccupa
un' azionista che dice che Fiat è libera di allearsi con chi
vuole. C' è il rischio che l' alleato ti compri e allora addio
auto italiana. Ecco perché servirebbe mettere qualche paletto,
per capire Marchionne quali produzioni garantisce e gli Angelli cosa
ci mettono». C' è qualcosa che vale la pena di salvare
anche in un momento così buio? «Sicuramente una certa
solidarietà ritrovata tra i lavoratori. Girando tra le
fabbriche noto che sempre più spesso il noi ha sostituito l'
io. Insomma, un certo modello culturale egoistico - io me la cavo da
solo - non regge più: forse è meglio provare tutti
insieme a resistere».
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