05.02.2009

INDESIT - Annunciata la chiusura: ”Pronti ad occupare”

 Il giorno dopo l´annuncio della chiusura, i 650 dipendenti della Indesit di None, alle porte di Torino, escono in strada, bloccano il traffico e chiedono che gli incentivi del governo per l´elettrodomestico «siano subordinati al mantenimento delle produzioni in Italia». Ma mentre sale la protesta, trapela l´indiscrezione su una «proposta indecente», così la definiscono i sindacalisti: per la prima volta in Italia si applicherebbe una sorta di cassa integrazione fai da te offerta dall´azienda al tavolo sindacale di martedì scorso a Roma.
In sostanza ciascuno dei lavoratori otterrebbe una cifra consistente (compresa, si dice tra i 20 e i 30 mila euro) come indennità per la perdita del posto e l´impegno dell´azienda a cercare altri posti di lavoro.
«La proposta - dice Giorgio Airaudo della Fiom torinese - non è accettabile perché in questo modo si favorisce il trasferimento delle produzioni fuori dall´Italia. Le aziende pagano e si sottraggono alle loro responsabilità verso un territorio».
«Invece di lanciare allarmi sarebbe il caso di cominciare ad agire», dice il sindaco di Torino Sergio Chiamparino. Anche se non pochi, a cominciare dal primo cittadino torinese, pensano che dietro l´annuncio sulla chiusura possa esserci anche l´intenzione di premere sul governo per ottenere incentivi a favore del settore. Una condotta aziendale che sarebbe certamente spregiudicata. «Quel che chiederemo - dice il segretario della Fim torinese, Nanni Tosco - è che per l´elettrodomestico come per l´auto la concessione degli incentivi al mercato sia vincolata a impegni precisi delle aziende per mantenere il lavoro negli stabilimenti italiani». Come del resto stanno chiedendo le organizzazioni sindacali in tutti i paesi in cui i governi stanno scendendo in campo per salvare l´economia.
«In questo paese la Indesit è come la Fiat a Torino. Chiuderla significa provocare un disastro sociale», ricorda il sindaco di None, Maria Luisa Simeoni. Ufficialmente la Indesit non ha ancora comunicato la data della chiusura di None, dove si producono lavastoviglie di ultima generazione a basso impatto ambientale. Ma nell´incontro di martedì a Roma i rappresentanti del gruppo hanno fatto capire che la chiusura dello stabilimento torinese sarebbe compensata dall´aumento della produzione nello stabilimento gemello in Polonia. «Il paradosso - facevano osservare ieri i sindacalisti - è che il trasloco avverrebbe proprio mentre il governo italiano sta per varare gli incentivi anche al mercato degli elettrodomestici».
Dietro la decisione di chiudere la fabbrica di None ci sarebbero i contraccolpi del calo di commesse sul mercato russo - dove la Indesit è leader - ma anche la necessità di fare cassa per far fronte a una crisi di liquidità. Difficilmente la questione verrà affrontata nel prossimo cda dell´azienda in programma l´11 febbraio: «Prima intendiamo discutere l´argomento con le organizzazioni sindacali», facevano osservare ieri fonti del gruppo. Il futuro della Indesit di None si conoscerà dunque a fine mese. Il 24 febbraio è stato infatti messo in calendario un incontro tra azienda e sindacati all´Unione industriale di Torino.

Indossano magliette blu marchiate Indesit e una scritta sul petto. "Io lavoro sicuro". Un motto che suona come uno sblerleffo per i 650 dipendenti di None, ora che l´azienda ha comunicato l´idea di chiudere lo stabilimento. Basiti, oltre che arrabbiati, gli operai Indesit. «L´ho saputo dal telegiornale all´ora di cena, stavo scolando la pasta. Ma si può essere trattati così?» sbotta Franco, 11 anni in azienda. Delusi da un gruppo che credevano più serio. «L´Indesit non è in difficoltà, ma usa la crisi come alibi per andare a fare lavastoviglie in Polonia, dove costa meno», dicono un po´ tutti. E per risposta loro, i potenziali futuri licenziati, hanno bloccato il traffico sulla strada regionale 23 che collega Torino al Sestriere, per due volte, dalle 9 alle 11 e alle 14 alle 16, costringendo automobilisti e camionisti a qualche chilometro di deviazione per bypassare il presidio di None.

Un´ipotesi, quella della chiusura, confermata anche da Gaetano Casalaina, direttore dello stabilimento di Fabriano, arrivato ieri mattina a None. Ieri i sindacati hanno proclamato due ore di sciopero per turno, adesione al 90 per cento, durante le quali i dipendenti hanno manifestato davanti ai cancelli dell´azienda. «Se sarà necessario occuperemo lo stabilimento», minacciano. Nei prossimi giorni si continuerà con alcune ore di sciopero ogni giorno, ma già dalla prossima settimana l´azienda aveva fissato 10 giorni di cassa integrazione. Martedì saranno in presidio in piazza Castello, dove ci sarà un incontro tra sindacati ed enti locali e già pensano di organizzare un pullman per mercoledì, per andare a manifestare a Fabriano durante il cda del gruppo Merloni, proprietario della Indesit. Tutte scadenze che scandiscono il tempo di un´altra data, il 24 febbraio, quando l´azienda incontrerà i sindacati.
Al picchetto ieri pomeriggio sono arrivati il sindaco di None, Maria Luigia Simeone, il presidente del consiglio provinciale, Sergio Vallero, con l´assessore provinciale alle Attività produttive, Carlo Chiama, e l´assessore regionale al Lavoro, Angela Migliasso, che ha cercato di tranquillizzare gli animi: «Se si tratta di una crisi industriale è un conto, ma forse è solo di una manovra per ottenere gli incentivi». Incalza il presidente della Provincia, Antonio Saitta: «Se il governo approverà incentivi per il settore degli elettrodomestici, l´azienda di None non ha nessun alibi per chiudere». D´altra parte che sia un problema industriale, i lavoratori non ci credono. Dentro la fabbrica ci sono quattro linee di lavastoviglie di ultima generazione, eco-compatibili e una sola, che occupa 50 addetti, del vecchio modello. In tutto 3.900 pezzi al giorno, 900 mila in un anno. Ora che i consumi sono in calo, anche l´azienda pensa di ridurre la produzione a 640 mila pezzi. E per quelli è sufficiente lo stabilimento polacco. «Quando hanno deciso di aprirlo dicevano che era per i nuovi mercati dell´Est - ricorda un altro lavoratore, Beppe - Abbiamo scioperato, ci siamo opposti, ma non immaginavamo che l´avrebbero usato per farci fuori». Anche Gianfranco Morgando, segretario piemontese del Pd, sollecita il gruppo dirigente: «Gli imprenditori si ricordino della responsabilità sociale che hanno nei confronti dei territori dove producono e dei lavoratori che impiegano». E gli operai rilanciano: «È una delle poche multinazionali italiane che abbiamo. Che prendano gli incentivi per investirli all´estero è una beffa».
Sventolano bandiere dei sindacati e soffiano nei fischietti tutta la loro preoccupazione. In azienda sono pochi quelli che potrebbero approfittare di qualche incentivo alla pensione. L´età media è bassa, 32 anni, la metà dei lavoratori sono donne. E se perdere il lavoro è una tragedia per chiunque, per qualcuno lo è ancora di più. Perché non sono poche le famiglie in cui marito e moglie sono anche colleghi e ora entrambi in bilico. Come Antonio Maccarone e Roberta Stoppa, 43 e 38 anni, un mutuo e due figli. «Ho già vissuto la chiusura dello stabilimento della Iarsital, dieci anni fa - racconta lui - Non voglio crederci che siamo daccapo». Ma in un´infelice classifica c´è anche chi sta peggio. Giovanna Bratzu, 56 anni, è stata la prima della famiglia ad essere assunta, 36 anni fa. «Ho già passato la crisi degli anni 80 - dice - quando tutti gli stabilimenti in quest´area erano dell´Indesit. Con il tempo ci siamo ridotti a 650 addetti, ma non si stava male». Così ha convinto la figlia Letizia, 28 anni, che appena finita la scuola, nove anni fa, è entrata in stabilimento. Lì ha conosciuto un collega, Luigi, 35 anni, si sono sposati e hanno un figlio. E visto che tutto sommato l´azienda sembrava un posto più sicuro di tanti altri, anche il marito di Giovanna, Rocco Sestito, 61 anni, sette anni fa ha deciso di lasciare il lavoro da camionista per unirsi al resto della famiglia. E ora sono in quattro, a scongiurare il peggio: «Chiudere sarebbe una tragedia».
Un fulmine a ciel sereno, dicono tutti. Tranne Anna, che pochi giorni fa si è rivolta alla sua banca per un piccolo prestito. Mai un ritardo nel mutuo, mai un problema con il conto. Eppure improvvisamente la sua busta paga da 1.600 euro al mese non valeva niente: «Il responso è stato Ko, bollino rosso - racconta - Il prestito mi è stato negato. Nemmeno l´impiegato si spiegava perché, ma ora tutto mi è chiaro: noi siamo sempre gli ultimi a sapere le cose, ma le banche sapevano con anticipo che un posto fisso alla Indesit Company non era più una garanzia».

(Repubblica, 5 febbraio 2008)

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